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Hamas commette rappresaglie contro i palestinesi di Gaza che lo contestano: le testimonianze raccolte da Amnesty

Le persone sanno bene che Israele è colpevole ma si rendono anche conto che Hamas non si preoccupa della loro sofferenza
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Poche settimane fa, nel pieno dell’ulteriore intensificazione dei bombardamenti israeliani contro la Striscia di Gaza, un portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri, dal suo comodo riparo all’estero, ha fatto questa dichiarazione: “La casa verrà ricostruita e i martiri… li riprodurremo dieci volte tanto”.

A queste parole ripugnanti e vergognose ha risposto una donna sfollata il 16 maggio da Beit Lahia verso il campo rifugiati di Shati, a Gaza City: “A loro [i dirigenti di Hamas] non importa della nostra sofferenza. Anche se ricostruirò la mia casa che è stata distrutta, i ricordi e la vita che ho passato lì non saranno mai ricostruiti. Mia cugina ha perso il marito e tre figli in un attacco israeliano. Come posso guardarla negli occhi e dirle che i suoi figli saranno riprodotti?”

Questa dichiarazione è contenuta in una ricerca di Amnesty International che, negli ultimi due mesi, ha raccolto documentazione su un preoccupante ripetersi di minacce, intimidazioni e persecuzioni – tra cui interrogatori e pestaggi – da parte delle forze di sicurezza di Hamas ai danni di palestinesi della Striscia di Gaza che stavano esercitando il loro diritto di protesta pacifica mentre era il corso il genocidio israeliano e aumentavano attacchi da terra e dal cielo e sfollamenti di massa.

Tutto è iniziato il 25 marzo a Beit Lahia, nel nord della Striscia di Gaza, quando le persone hanno manifestato a più riprese per chiedere la fine del genocidio israeliano e degli sfollamenti illegali. Le proteste hanno coinvolto centinaia, se non migliaia, di palestinesi che intonavano slogan e tenevano cartelli con cui criticavano Hamas, alcuni chiedendo la fine del suo governo. Altre proteste, più piccole, sono state organizzate nel campo rifugiati di Jabalia, a Shuja’iya e a Khan Younis: anche in questo caso, sono stati intonati slogan contro determinati dirigenti di Hamas.

Tra le persone intervistate da Amnesty International c’è chi ha mostrato un atteggiamento di sfida, per nulla intimorito. Un abitante del quartiere al-Alatra di Beit Lahia, la cui famiglia nel 2024 era stata decimata da un attacco israeliano, ha detto: “Abbiamo il diritto di vivere in dignità. Abbiamo iniziato a manifestare perché vogliamo che sia posta fine alla nostra sofferenza. Nessuno ci ha incitato a protestare o ci ha detto di farlo. Le persone protestano perché non possono vivere, vogliono che le cose cambino. Le forze di sicurezza ci hanno minacciato e picchiato, ci hanno accusati di essere traditori solo perché abbiamo preso la parola. Continueremo a protestare, non importa a quale rischio”.

Il 16 aprile questa persona e altre di al-Alatra sono state convocate per interrogatori dai servizi di sicurezza di Hamas. Sono state portate in un edificio trasformato in un improvvisato centro di detenzione e picchiate da una cinquantina di uomini armati in abiti civili: “Mi hanno colpito coi bastoni di legno sul collo e sulla schiena. Urlavano che ero un traditore, un collaborazionista del Mossad [i servizi d’intelligence israeliani]. Ho risposto che siamo scesi in strada perché vogliamo vivere, vogliamo da mangiare e da bere. Ho perso la mia famiglia in uno dei peggiori massacri di questa guerra, cinque fratelli e sorelle e i loro figli. È stato terribile essere chiamato collaborazionista, sentir messo in discussione il mio patriottismo dopo che la mia famiglia era stata spazzata via”.

L’uomo ha aggiunto che le persone sanno bene che Israele è colpevole ma si rendono anche conto che Hamas non si preoccupa della loro sofferenza. È stato rimesso in libertà dopo quasi quattro ore di detenzione e interrogatorio e gli è stato ordinato di non prendere parte a ulteriori proteste.

Da quando, nel 2007, ha assunto il potere nella Striscia di Gaza e istituito un proprio apparato di sicurezza e di mantenimento dell’ordine pubblico, Hamas ha imposto gravi limitazioni alle libertà di espressione, di associazione e di protesta pacifica, ricorrendo all’uso della forza eccessiva in diverse occasioni, soprattutto nel 2019, e arrestando e torturando regolarmente critici e dissidenti. Persino durante l’attuale genocidio israeliano, i servizi di sicurezza di Hamas hanno continuato a soffocare la libertà di espressione. Sette persone intervistate da Amnesty International hanno dichiarato di essere state definite “traditori” da agenti in borghese delle forze di sicurezza, durante le proteste o nel corso degli interrogatori.

Questa è la testimonianza di un manifestante: “Qui a Beit Lahia siamo attaccati alla nostra terra. Quando ci hanno sfollato, è stato come se qualcuno ci avesse portato via tutta la nostra vita. Abbiamo chiamato vicini e amici per protestare dopo gli ordini di evacuazione poiché temevamo un altro sfollamento. Era una protesta contro l’occupazione e anche contro Hamas. Volevamo che ci sentissero”.

Questa persona ha raccontato che inizialmente le proteste chiedevano la fine del genocidio israeliano, un cessate il fuoco e l’apertura dei punti d’ingresso verso la Striscia di Gaza. Ma poi molti hanno iniziato a intonare slogan contro Hamas perché “la gente è arrabbiata e stufa”. L’uomo è stato convocato più volte per interrogatori ma ha sempre rifiutato fino a quando, il 17 aprile, i servizi di sicurezza di Hamas sono venuti a prenderlo a casa. Ecco il racconto di quanto gli è accaduto: “Mi hanno preso a bastonate e a pugni in faccia. Le botte non erano così dure, penso più che altro fossero una minaccia. In precedenza, dopo una protesta, una persona affiliata ai servizi si era avvicinata a me avvisandomi che mi avrebbe sparato ai piedi se avessi continuato a manifestare”.

Nel corso dell’interrogatorio, l’uomo è stato accusato di essere stato reclutato dal capo dei servizi segreti dell’Autorità palestinese, che ha sede a Ramallah, e di essere stato pagato dall’intelligence israeliana: “È tutto ridicolo, lo sanno anche loro. È vero, sto dalla parte di Fatah [l’altro principale partito politico palestinese] ma qui a Gaza ora non si tratta di Hamas o di Fatah. Si tratta di sopravvivere. Vogliamo vivere”.

Una donna che aveva collaborato all’organizzazione di una manifestazione indetta da donne a Beit Lahia ha denunciato che il marito e i figli sono stati minacciati di arresto per aver preso parte alla protesta: “Dopo le minacce contro gli uomini, abbiamo voluto prendere la parola in quanto donne. Era una protesta piccola ma volevamo comunque inviare ai nostri dirigenti e anche all’occupazione [israeliana] questo messaggio: non tolleriamo più tutto questo, vogliamo proteggere i nostri figli, vogliamo vivere!”.

Chiudo questo post con l’amarezza di un’altra palestinese della Striscia di Gaza: “Abbiamo protestato contro Hamas e contro la guerra e ora Israele ci sfolla ancora una volta”.

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