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Gaza brucia sotto i nostri occhi: si tace non per ignoranza ma per convenienza

Il crimine non è solo nei palazzi del potere, ma anche nelle nostre coscienze anestetizzate. L’indifferenza non è l’assenza di empatia: è la sua monetizzazione
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Viviamo in un’epoca in cui la sofferenza è spettacolo, e lo spettacolo genera profitto. Gaza brucia sotto gli occhi delle telecamere dei telefonini e dei droni e le immagini rimbalzano sui social, eppure l’inazione domina la scena geopolitica. Questo non è un errore del sistema: questo è il sistema. L’indifferenza delle democrazie occidentali non è un vuoto morale, ma una scelta strutturale, una strategia funzionale alla gestione del consenso e alla protezione degli interessi strategici dei paesi ricchi.

Tutto ciò è già successo.

Nel secolo scorso, le atrocità – dall’Olocausto al Rwanda, da Srebrenica al Kosovo – sono state il banco di prova di un ordine internazionale incapace, o non disposto, a sacrificare l’equilibrio geopolitico sull’altare dell’umanità. Gli strumenti esistono, le informazioni ci sono, eppure, si preferisce il silenzio. Non per ignoranza, ma per convenienza. L’indifferenza è una valuta politica.

Nel 1942, alla Conferenza di Wannsee, si pianifica la “soluzione finale”. Due anni dopo, il rapporto Vrba-Wetzler documenta in modo dettagliato il funzionamento di Auschwitz. Ma le potenze alleate non bombardano i binari che portano alla morte o i cancelli di quell’inferno. Non perché non possono farlo, ma perché non lo reputano opportuno alla luce dell’obiettivo finale: sconfiggere militarmente la Germania. Lo stesso schema si ripete nel 1994 in Rwanda: l’Onu ritira le truppe nel pieno del genocidio, mentre la burocrazia occidentale si rifugia dietro il velo della neutralità. La neutralità, in questi casi, non è imparzialità. È complicità.

Il mercato globale dell’informazione non è più uno strumento di denuncia, ma un apparato anestetizzante. La stampa, che dovrebbe rappresentare il cane da guardia della democrazia, oggi partecipa all’economia dell’attenzione, alimentando una narrazione selettiva dove alcune vittime sono degne di pietà e altre sono semplici “effetti collaterali”. Gaza non fa eccezione. Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, la reazione israeliana si trasforma in punizione collettiva per mano dei nipoti e pronipoti delle vittime del nazismo. Una storia agghiacciante e le organizzazioni internazionali parlano ancora una volta di crimini di guerra. Ma le parole, come le vite dei civili, si perdono nel rumore geopolitico.

Il principio della “Responsabilità di Proteggere”, approvato dall’Onu nel 2005 per evitare il ripetersi di genocidi, oggi è carta straccia. Non per mancanza di meccanismi giuridici, ma per assenza di volontà politica. Le sanzioni selettive? Inapplicate. I tribunali internazionali? Delegittimati. Le pressioni diplomatiche? Filtrate da interessi energetici e alleanze militari. E mentre le cancellerie si paralizzano, i cittadini delle democrazie liberali – quelli che si indignano sui social e poi si spengono nell’aperitivo del sabato o sulle spiagge assolate del Mediterraneo – partecipano, inconsapevolmente ma attivamente, a questo sistema di rimozione collettiva.

Il crimine non è solo nei palazzi del potere, ma anche nelle nostre coscienze anestetizzate. L’indifferenza non è l’assenza di empatia: è la sua monetizzazione. È la nostra incapacità di vedere l’altro come parte del nostro stesso destino umano. Primo Levi lo aveva intuito: è accaduto, quindi può accadere di nuovo. Ma oggi, quel “può” è diventato “accade”. Accade ora. E noi lo sappiamo.

La verità è semplice: l’umanità non ha fallito. L’umanità è stata messa da parte. In nome della stabilità, del gas e del petrolio, delle rotte commerciali da un ordine globale che premia la forza e punisce la vulnerabilità. Gaza è il nuovo specchio dell’Occidente: un riflesso deformato, ma preciso, di ciò che siamo diventati.

Non sarà la Storia a giudicarci. Saremo noi stessi, quando capiremo che l’umanità che stiamo perdendo non è quella degli altri, ma la nostra.

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