“Referendum sulla cittadinanza? Una reazione della società civile alla mancanza di coraggio della politica”

Daniela Ionita lo definisce “un contrattacco” di fronte al silenzio e alla mancanza di coraggio dei partiti. Per la portavoce del movimento Italiani senza cittadinanza, il referendum dei prossimi 8 e 9 giugno è “uno strumento di reazione della società civile a una politica che usa la cittadinanza come una carta da intestarsi, salvo poi non andare avanti con le promesse fatte”. Nata in Romania e arrivata in Italia nel 2006, è diventata cittadina italiana solo nel 2023 dopo anni di attese: “E io sono stata fortunata perché avevo un passaporto europeo”, spiega, quindi meno tempo da aspettare. La consultazione vuole colpire “la parte più discriminante della legge 91/92”, quella che crea dei “non cittadini di seria A e di serie B”, costringendo chi viene da Paesi extra Ue ad avere 10 anni di residenza continuativa prima di poter fare domanda. Il referendum propone che siano ridotti a cinque. Sarebbe solo un primo passo e resterebbe la necessità di una riforma, “ma di cittadinanza non si parlava più da anni”. E almeno “siamo riusciti a riportare l’argomento nell’agenda politica del governo Meloni”, continua Ionita. Anche perché il tema, se a destra non piace, agita anche a sinistra. Tanto da costringere chi vuole un cambiamento a fare da soli, combattendo contro silenzi mediatici (“della Rai ma anche di giornali che ne parlano all’ultimo minuto”) e spinte per l’astensione arrivate dalla maggioranza.
Come sta andando la campagna?
Noi ci abbiamo creduto fin dall’inizio, fin da tempi non sospetti quando nessuno pensava che avremmo depositato le firme. Noi crediamo che la gente sia più avanti dei partiti nel capire che ci sono persone con background migratorio in Italia senza pieni diritti. E crediamo anche ora nella possibilità che tramite la forza del passaparola, i banchetti, gli eventi, si possa arrivare a più persone possibile.
Quali gli ostacoli più grandi?
Più che impaurita dalle prossime settimane, sono sconcertata dal fatto che la seconda più alta carica dello Stato, Ignazio La Russa, si sia esposta dicendo di non andare a votare per uno degli strumenti più importanti della democrazia, scritto nella Costituzione. Poi si aggiunge l’ostruzionismo mediatico della Rai, ma anche di testate giornalistiche o televisive che hanno deciso di aspettare l’ultimo minuto per parlare del referendum.
Voi girate per l’Italia, qual è la percezione delle persone che incontrate?
Noi ci aspettavamo di lavorare sul Sì, contrattaccare sul No al massimo. Invece ci siamo trovati a dover informare sul fatto che esista un referendum. La cosa assurda è il fatto che tanti Comuni ancora non si sono espressi per informare sul voto. E questo perché ci sono posizioni politiche che suggeriscono di boicottarlo.
Avete l’appoggio compatto delle opposizioni?
Ora sì, l’appoggio è arrivato in tempi diversi. Questo fa pensare che il tema della cittadinanza è un tema scomodo da tutte le parti. Che sia destra, centro o sinistra. Speriamo che ora che hanno preso posizione continueranno a essere uniti per chiedere una riforma chiara e accessibile dopo il referendum.
Da quanto chiedete risposte alla politica?
Come movimento nasciamo nel 2016 per una riforma della cittadinanza che sia il più possibile larga. Negli anni abbiamo sempre partecipato a intergruppi parlamentari e a tutte le varie proposte di legge, ma per arrivare alla fine a nessuna riforma reale. Nei giorni scorsi c’è stata una discussione sul dl 36 per una riforma che vada a ridurre lo ius sanguinis ai nonni, però non è una cosa che avevamo richiesto. Noi abbiamo invece chiesto una riduzione dei requisiti necessari per avere la cittadinanza per naturalizzazione, che sono tra i più complessi d’Europa.
Perché?
Ad esempio c’è un lato economico molto forte. Secondo la legge 91\92, per avere la cittadinanza non puoi essere povero. Devi avere un reddito minimo per tre anni in un Paese, dove in tanti vivono in difficoltà economiche.
Perché la scelta di fare ricorso al referendum abrogativo?
È da anni che ci ragioniamo. Il nostro ex portavoce Omar Neffati, che non c’è più ed è stato un grandissimo attivista, era stato lungimirante perché aveva pensato a questo strumento di reazione civica nei confronti di una situazione politica sempre arenata. Il problema in questi anni, è che sono stati gli stessi partiti con cui abbiamo dialogato a tirarsi indietro quando c’era da votare la riforma in Parlamento. Il referendum è una risposta alla mancanza di coraggio della politica. E’ uno strumento di reazione della società civile a una politica che usa la cittadinanza come una carta da intestarsi salvo poi non andare avanti con le promesse fatte. E’ quello che è successo negli ultimi 20 anni. E ora ci troviamo nel 2025, senza che sia cambiato nulla se non il numero di persone che continueranno a nascere e crescere in Italia come seconde, terze, quarte generazioni di stranieri, quando in realtà dovrebbero essere considerate italiane.
Ma può bastare il Sì al referendum a cambiare le cose?
Siamo consapevoli che non basta. Abbiamo voluto usarlo perché di cittadinanza non si parlava più da anni. E’ uno degli strumenti per riscrivere questa legge, ma solo un piccolo pezzo. Noi chiediamo una nuova legge, una riforma. Per questo continuiamo i lavori con i partiti e la società civile. E il nostro impegno per ridurre i tempi a livello di amministrazioni comunali. Non ci fermeremo, anche se avremo una vittoria.
I detrattori, e la stessa premier Meloni, dicono che i dieci anni di attesa sono un tempo congruo. Voi cosa rispondete?
Noi vogliamo colpire la parte più razzista della legge, quella che crea non cittadini serie A e di serie B. Al momento per chi ha nazionalità extra Ue, servono dieci anni di residenza continuativa. Mentre sono quattro per chi viene da Paesi comunitari. Poi lo Stato può comunque prendersi 36 mesi per risponderti. Vogliono portare le persone a vivere in una costante attesa.
Che effetto hanno concretamente sulla vita delle persone tempistiche così lunghe?
La difficoltà più grande è garantire una residenza ininterrotta. Devi avere lo stesso alloggio per tutto il tempo, oppure essere sicuro che l’anagrafe tracci i tuoi spostamenti. Inoltre, per avere un reddito minimo, molti giovani devono rinunciare a studiare. Io, ad esempio, ho cercato di fare entrambe le cose ma non ho potuto fare l’Erasmus perché assentarmi per un periodo era un rischio. Ci dimentichiamo che esistono vite dietro queste leggi.
E’ possibile per voi trovare un supporto trasversale, non solo a sinistra?
Fin dall’inizio noi abbiamo detto che la nostra battaglia è apartitica. I diritti non dovrebbero e non devono avere colore. Tanta sinistra ha usato il tema migrazione e cittadinanza senza poi andare a sentire i bisogni delle persone e senza concretizzare. Non è una tematica di sinistra, riguarda la giustizia. In questo ultimo mese sono andata nelle scuole a parlare con le quinte: non si parla neanche più di generazioni future, quando arrivi alla terza o quarta generazione in Italia c’è un problema nella percezione. Esistono, esistiamo.
E come si cambia?
Al di là della modifica delle leggi, serve un cambio di percezione culturale. E’ necessario iniziare a vedere le persone con backround migratorio come persone.
Temete un effetto boomerang: se il referendum non arriva al quorum, la politica può dire che l’argomento non interessa agli elettori?
Se non si raggiunge il quorum, c’è una responsabilità politica da parte di alcuni politici importanti che hanno invitato all’astensione, dei Comuni e della Rai che avevano il dovere di informare. Se non riusciamo ad arrivare al quorum è perché non si è recepito che esiste un referendum. Comunque andrà, abbiamo cambiato l’agenda politica del governo di questi mesi. Perché non se la aspettavamo che avremmo parlato di cittadinanza. La società civile ha portato un punto nel calendario politico del governo.