Non perdete l’occasione di vedere Autoritratto di Davide Enia a teatro: impressionante!

Fino al 1 giugno al Teatro India di Roma sarà possibile vedere Autoritratto di Davide Enia, ancora una volta accompagnato dal vivo dalle musiche composte e suonate dal vivo dal bravo Giulio Barocchieri. Da anni ripeto il precedente spettacolo di Enia, L’Abisso, è uno degli spettacoli più importanti del teatro italiano contemporaneo.
Sette anni fa su queste pagine definivo quello spettacolo: “importante, commovente, necessario. Un racconto dolente e umanissimo che ha tramutato una serata al Teatro India in un rito collettivo di espiazione e resurrezione (…) lo spettacolo di Enia andrebbe mostrato ogni sera in prima serata sui canali nazionali (…) Nessuna retorica, nessun buonismo, nessuna ideologia: solo il terribile splendore della verità, che nessuna propaganda potrà occultare.” Un giudizio, mutatis mutandi, che potremmo applicare perfettamente anche al nuovo spettacolo (anche in questo caso lanciato da un libro omonimo e parallelo, Autoritratto. Istruzioni per sopravvivere a Palermo uscito a marzo per i tipi di Sellerio).




Chiunque abbia visto l’ultimo spettacolo di Davide Enia, ha avuto lo stesso spontaneo, forse puerile, confronto mentale: rispetto a L’Abisso, a parità di intensità e commozione, Autoritratto è superiore? Sinceramente, non mi aspettavo che potesse superare la potenza intellettuale ed emotiva del precedente, eppure forse mi ha commosso in maniera ancora più profonda.
Non mi vergogno di confessarlo: ho pianto per lunghi tratti dello spettacolo.
L’Abisso aveva l’urgenza di denunciare l’orrore del presente, Autoritratto la necessità di ricostruire le macerie del nostro passato. Da un punto di vista drammaturgico gli spettacoli sono simili, dal punto di vista attoriale si vede forse un ulteriore maturazione, rispetto alla già notevole prova precedente. Qui l’intreccio fra dramma collettivo e autobiografia è ancora più commovente.
Enia racconta la sua adolescenza di giovane palermitano nei primi anni 90 che sostiene gli esami di maturità a cavallo di quel crocevia devastante che fu la strage di Capaci. In questo, il racconto straziante e intollerabile della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo.
Nelle parole ufficiali di Enia nel presentare lo spettacolo: “una storia disumana che si configura come l’apparizione del male, il sacro nella sua declinazione di tenebra. Siamo in presenza dell’orrore, di una ferocia smisurata, di una linea di azioni così abiette da essere impossibile ogni aggettivazione. E su tutto vibra il sacrificio di una vittima innocente. (…) è una tragedia, una orazione civile, un processo di autoanalisi personale e condiviso, un confronto con lo Stato, una serie di domande a Dio in persona”. Se esiste il tema della teodicea, è per affrontare l’orrore di queste storie indicibili.
Un dato tecnico interessante: parlando con diversi amici attori, di stili e formazioni diverse, ho avuto lo stesso riscontro, ovvero che la prestazione attoriale di Enia è semplicemente impressionante; quella grande capacità di cambiare registro vocale, già presente negli spettacoli precedenti, ora appare ancora più matura ed emozionante. Con la stessa abilità con cui passa, linguisticamente, dal vernacolo all’italiano forbito, narrativamente, dalla tenerezza dell’innamoramento adolescenziale allo sconvolgimento della tragedia collettiva, vocalmente Enia passa dalla lucidità del narratore di cronaca alla concitazione del ragazzino spaventato, fino al crescendo parossistico del pianto cantato in cui l’orrore del racconto si disarticola nell’indicibile.
Tutti abbiamo pensato alla difficoltà straordinaria di restituire ogni sera quel crescendo emotivo straziante, profondamente autobiografico, in cui è evidente il valore catartico collettivo del rito teatrale.
Del resto, da siciliano vero, Enia ha la tragedia greca nelle vene, come i canti popolari, sa, dunque, immergere, quell’immenso patrimonio del Cunto siculo nella realtà sociale allucinante in cui è vissuto, una dimensione di perenne potenziale apocalisse nel quotidiano, in cui il “Male” lo incontri per strada e lo respiri ovunque, ma il “Bene” è il tuo dirimpettaio (Paolo Borsellino) o il tuo insegnante di religione (Don Puglisi), il quale ti ricorda, in un benevolo elogio, il comandamento di ogni poeta e intellettuale: “bisogna nominare le cose”.
Siamo davanti a uno dei più grandi interpreti della storia del nostro teatro, sia come spessore intellettuale che come abilità attoriale. Non perdete l’occasione di vederlo dal vivo.