I dazi all’Ue sono il fallimento della strategia diplomatica di Meloni

di Paolo Gallo
Il 9 luglio entreranno in vigore i nuovi dazi del 50% imposti dagli Stati Uniti su una vasta gamma di prodotti europei – prima programmati per il 1° giugno e ora dichiarati illegali da una corte Usa – tra cui numerosi beni italiani, simbolo dell’eccellenza del Made in Italy.
La notizia, che ha suscitato sgomento tra le imprese italiane e gli analisti internazionali, ha anche un impatto profondamente politico: è la prova tangibile del fallimento della strategia diplomatica portata avanti da Giorgia Meloni nei rapporti con Washington.
Sin dal suo insediamento, la Presidente del Consiglio ha fatto della sua vicinanza al mondo anglosassone – e in particolare all’America di Donald Trump – un pilastro della sua narrazione politica. I frequenti riferimenti alla “special relationship” con gli Stati Uniti e le fotografie sorridenti con il tycoon repubblicano, diventate virali sui social del partito, avevano l’obiettivo di consolidare l’immagine di una leader forte, capace di influenzare gli equilibri internazionali. Ma la realtà, oggi, presenta un conto amaro.
I nuovi dazi rappresentano una minaccia seria per il tessuto produttivo italiano. Settori come la meccanica di precisione, il comparto agroalimentare e il lusso rischiano di perdere quote di mercato cruciali. Le piccole e medie imprese – che costituiscono il cuore pulsante del sistema economico italiano – si trovano di fronte a un muro tariffario che le espone a una concorrenza sleale e a una marginalizzazione in uno dei mercati più importanti al mondo. E tutto questo accade con un governo che, a parole, rivendicava un’influenza diplomatica senza precedenti.
La verità è che l’Italia ha scelto una postura subalterna, più ideologica che pragmatica, nell’ambito delle relazioni internazionali. Meloni ha preferito allinearsi ciecamente al trumpismo e alle sue varianti sovraniste, illudendosi che bastasse una comune visione identitaria per ottenere benefici economici e commerciali. Il risultato, oggi, è esattamente l’opposto: l’America protegge se stessa, come ha sempre fatto, senza guardare in faccia alle amicizie personali o agli endorsement politici.
Ma c’è un altro aspetto che rende questa sconfitta ancora più cocente: l’assenza di una risposta politica all’altezza. In un’Europa che si interroga sul proprio futuro strategico, l’Italia sembra così condannata a un ruolo di comprimaria, incapace di far valere il proprio peso negoziale. Eppure, solo pochi mesi fa, Giorgia Meloni vantava i “successi” della sua linea estera, definendola “coerente, autorevole, centrata sugli interessi nazionali”. L’autonomia strategica tanto sbandierata si è però dissolta davanti alla prima vera prova di forza. I dazi di Trump sono un colpo durissimo, non solo all’economia, ma anche alla credibilità del governo.
E mentre le imprese cercano di capire come sopravvivere, a Palazzo Chigi si tace, forse nella speranza che la realtà non bussi troppo forte alla porta della propaganda.
Alla fine, come spesso accade, i nodi vengono al pettine. E l’Italia, oggi, paga il prezzo di una politica estera che ha privilegiato i simboli agli strumenti, la fedeltà ideologica alla reale difesa degli interessi nazionali. I dazi non sono solo una misura economica: sono il simbolo di un’illusione diplomatica andata in frantumi.