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Delitto Garlasco, torna l’ipotesi alternativa: “Il killer non lavò le mani in bagno dopo l’omicidio”

Una ricostruzione molto differente dallo scenario messo nero su bianco dalla sentenza d’appello bis che ha condannato Alberto Stati a 16 anni di carcere
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Nella nuova inchiesta sul delitto di Garlasco torna una delle ipotesi alternative già venuta fuori in un dossier dei carabinieri che nel 2020 provarono a riaprire il caso. Nel fascicolo della Procura di Pavia a carico di Andrea Sempioindagato per concorso in omicidio con Stasi o con ignoti – si punta su una ricostruzione: il killer di Chiara Poggi non si sarebbe lavato le mani in bagno e non avrebbe pulito poi dispenser e lavabo dalle tracce di sangue.

Perché si tratta di una circostanza non irrilevante? Perché è questo un punto centrale dallo scenario messo nero su bianco dalla sentenza d’appello bis, confermata dalla Cassazione, che ha condannato Alberto Stati a 16 anni di carcere: tra le prove a carico dell’ex bocconiano, infatti, vi sono quelle “due impronte” trovate “sul dispenser del sapone” che l’aggressore “sicuramente” utilizzò “per lavarsi le mani dopo il delitto“, si legge nelle motivazioni. La posizione delle due impronte “e la non commistione del Dna della vittima”, per la Corte, “dimostrano che maneggiò il dispenser per lavarlo accuratamente, dopo essersi lavato le mani e aver ripulito il lavandino”. Per i giudici, infatti, l’assassino di Chiara si era sporcato le mani e, prima di lasciare la villetta, avrebbe provato a ripulirle. La presenza del killer in quella stanza è, tra l’altro, confermata dall’impronta insanguinata presente sul tappetino dello stesso bagno al piano terra.

Gli investigatori, che già 5 anni fa tentarono di riaprire le indagini, segnalarono che era vero sì, come accertato dal Ris, che il lavandino del bagno del piano terra era “privo di tracce ematiche“, ma che “è impossibile che il lavandino e il dispenser” siano stati “lavati accuratamente dall’aggressore”. E ciò perché su quel dispenser, oltre alle due impronte di Stasi, vennero repertate “numerose impronte papillari sovrapposte” che sarebbero state “cancellate” in caso di lavaggio. Vi fu trovato pure Dna di Chiara e della madre, altro elemento che dimostrerebbe che non venne ripulito. Infine, una fotografia scattata nei primi sopralluoghi mostrava la presenza di 4 capelli “neri lunghi” (mai repertati), alcuni vicino allo scarico e ciò indica, per inquirenti e investigatori, che “il lavandino non è mai stato lavato dalla presenza di sangue”. Altrimenti sarebbero stati “portati via dall’acqua“. Capelli neri, che non potevano essere di certo del biondo Stasi.

Nel 2020, però, il fascicolo aperto contro ignoti fu archiviato. Per i magistrati, che in passato hanno esaminato gli indizi, “il sangue, essendo liquido e solubile in acqua, si lava molto più facilmente dei capelli”, i quali, in base a forma e lunghezza, “tendono a rimanere sul fondo della vasca anche dopo il risciacquo”. È “verosimile”, aggiungono, che l’assassino non si sia soffermato a verificare il risultato del lavaggio e si sia invece allontanato in fretta dalla scena del crimine. Non solo. Secondo quanto ricostruito sulla base della memoria del tenente colonnello Giampietro Lago del Ris, depositata nel processo d’appello bis che ha portato alla condanna di Stasi, i capelli sono inequivocabilmente riconducibili alla vittima e sarebbero stati recisi proprio dai colpi inferti con un oggetto contundente, mentre Chiara veniva trascinata verso le scale che portano al seminterrato. L’aggressore, con le mani sporche di sangue, si sarebbe poi spostato in bagno, come testimoniato dalle numerose impronte di una suola “a pallini”, numero 42, compatibile con le scarpe Frau acquistate da Stasi poco tempo prima del delitto. Durante il processo, la Procura generale di Milano ha mostrato anche una fotografia del pigiama di Chiara, imbrattato di sangue, su cui sono “chiaramente visibili” le tracce delle dita dell’assassino (impronte “mai analizzate, perché la maglia arrivava al medico legale completamente intrisa di sangue“, si legge nella sentenza).

Oggi però quella ricostruzione torno sul tavolo di inquirenti e investigatori. In questo quadro viene inserita pure quell’ormai nota impronta 10 sulla porta d’ingresso dell’abitazione, in particolare sulla parte interna, che si ritiene potrebbe essere stata lasciata dall’assassino prima di fuggire. Delitto, tra l’altro, che potrebbe essere stato commesso da più persone. Gli esiti di una nuova consulenza dattiloscopica su quell’impronta 10, però, hanno indicato che non è di Sempio (a cui è attribuita la 33 sul muro delle scale vicino al corpo), né di Stasi, né delle gemelle Cappa, né degli altri amici di Marco Poggi.

C’è da dire, poi, che in una consulenza della difesa Stasi del 2020, firmata da Oscar Ghizzoni, veniva scritto che sul dispenser, oltre alle due impronte di Stasi, ci sarebbe stato anche un “frammento papillare” denso “di informazione dattiloscopica”. Più in generale, le due impronte di Stasi erano “parzialmente sovrapposte ad altre impronte” e c’erano almeno altri settecontatti papillari“. Sulle impronte, tra l’altro, e in particolare sui “para-adesivi“, ossia sulle fascette in cui sono conservate, saranno effettuate analisi genetiche nell’incidente probatorio, che potrebbero dare risposte su Dna ed eventuali identificazioni. Nella consulenza dattiloscopica, di recente depositata, si dà conto di 58 impronte in totale contenute in “trentacinque adesivi dattiloscopici”.

C’è il “para-adesivo” della traccia papillare 10, ma non quello della 33 agli atti. Da qui la ricerca per quest’ultima dell’intonaco che fu grattato all’epoca, nella speranza, per inquirenti e investigatori, di effettuare nuove analisi biologiche alla ricerca di sangue in quell’impronta. Non si sa ancora, infatti, se quel reperto sia stato distrutto o si trova ancora negli archivi del Ris. Tra l’altro, anche un frammento del tappetino del bagno sarà tra i tanti reperti che saranno analizzati nel maxi incidente probatorio genetico.

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