Omicidio Scopelliti, altri 7 indagati: c’è il gotha della ‘ndrangheta. “Coinvolto anche Messina Denaro”

Ci sono altri sette indagati per l’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, il sostituto procuratore generale della Cassazione ucciso il 9 agosto 1991, cinque mesi prima di discutere, davanti alla Suprema Corte, la sentenza del primo maxiprocesso a Cosa nostra. Un omicidio irrisolto da 34 anni e consumato a Piale, una frazione di Villa San Giovanni in provincia di Reggio Calabria, mentre il magistrato era di ritorno dal mare.
Nel 2019, quando il collaboratore di giustizia Maurizio Avola si è autoaccusato del delitto e ha consentito alla Dda di Reggio Calabria di trovare il fucile con il quale sarebbe stato ucciso Scopelliti, i pm avevano messo sotto inchiesta i primi 17 indagati, tre dei quali oggi deceduti: il boss di Castelvetrano Matteo Messina Denaro, il boss di Archi Giovanni Tegano e Francesco Romeo, cognato di Benedetto Nitto Santapaola. Anche quest’ultimo, capo di Cosa Nostra catanese, in realtà compare nei capi di imputazione provvisori formulati dalla Dda in alcuni decreti di perquisizione eseguiti a fine aprile dalla squadra mobile in provincia di Messina e Reggio Calabria. Nei confronti di Nitto Santapaola, però, la Procura precisa che “non si può procedere perché già assolto per l’omicidio Scopelliti”, in uno dei vecchi processi istruiti in riva allo Stretto.
Gli altri sei indagati sono il gotha della ‘ndrangheta reggina: i boss di Archi Pasquale Condello detto il “Supremo” e Giuseppe De Stefano (figlio di don Paolino De Stefano), il boss di Africo Giuseppe Morabito e il boss di Limbadi Luigi Mancuso (pure lui definito il “Supremo”), uno dei capi dell’alleanza delle ‘ndrine del milanese Franco Coco Trovato e Giuseppe Zito, ritenuto uno degli esponenti di vertice della cosca Zito-Bertuca attiva nel territorio di Villa San Giovanni.A questi vanno aggiunti gli altri indagati: i catanesi Marcello D’Agata, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Vincenzo Salvatore Santapaola, e i calabresi Giuseppe Piromalli, Pasquale Tegano, Antonino Pesce, Giorgio De Stefano, Vincenzo Zito, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Santo Araniti e Luigi Molinetti detto “Gino la Belva”.
Complessivamente, quindi, dalla riapertura dell’inchiesta ad oggi, il procuratore Giuseppe Lombardo e il sostituto della Dda Sara Parezzan hanno iscritto nel registro degli indagati 24 soggetti, compresi i boss deceduti. Più ovviamente il collaboratore Maurizio Avola, che si è autoaccusato di aver guidato la moto utilizzata per l’attentato. È lo stesso pentito che ha sostenuto di aver partecipato alla strage di via D’Amelio, senza convincere la Procura di Caltanissetta che lo ha ha considerato totalmente inattendibile. Sempre Avola, recentemente, ha persino raccontato di aver ucciso Enrico De Pedis, in arte Renatino, il “Dandy” di “Romanzo criminale”, uno dei boss più celebri della Banda della Magliana. In relazione a questo omicidio, consumato il 2 febbraio 1990 a Roma, però dagli accertamenti della Dia di Caltanissetta sembrerebbe che Avola, all’epoca sorvegliato speciale, poche ore prima e poche ore dopo il delitto è stato sottoposto a due controlli eseguiti dal commissariato di Catania Borgo Ognina.
I COLLABORATORI CHIAMANO LA DDA – Sul giudice Scopelliti, la Procura è arrivata alle dichiarazioni di Avola su input di un altro collaboratore di giustizia che “invitava la Dda di Reggio Calabria a sentire un altro collaboratore, da cui aveva appreso notizie sull’omicidio Scopelliti e sul fatto che un altro collaboratore (Avola Maurizio) aveva omesso di parlarne nel suo percorso collaborativo”. Nel decreto di perquisizione eseguito dalla squadra mobile di Reggio Calabria non compaiono i nomi dei primi due pentiti ma, da alcune carte trasmesse a Caltanissetta, è facile ricostruire che a scrivere ai pm reggini è stato Augusto La Torre, “coodetenuto” a Ivrea del collaboratore di giustizia Pietro Ruggieri che, dal 2011 al 2016, a sua volta è stato in cella assieme a Maurizio Avola nel carcere di Sanremo. Sentito dal procuratore di Reggio Lombardo e dall’allora sostituto della Dna Francesco Curcio (oggi procuratore di Catania), il 7 dicembre 2017 Ruggieri “raccontava quanto gli era stato riferito da Avola, ossia di aver appreso da lui che Scopelliti era stato ucciso su mandato di Cosa Nostra, a lui dato da Benedetto, detto Nitto, Santapaola. Egli aveva eseguito l’omicidio insieme ad Aldo Ercolano e Marcello D’Agata”.
LA RICOSTRUZIONE DEL PENTITO AVOLA – Interrogato Avola conferma tutto e, in particolare che a sparare sarebbe stato Vincenzo Salvatore Santapaola (il figlio di Nitto). Sulla scena dell’omicidio non ci sarebbe stata solo la moto Honda Gold Wing 1200 guidata dal collaboratore di giustizia. Ma addirittura quello che, nel provvisorio capo di imputazione, viene definito “un corteo di autovetture in cui vi erano, a bordo di un ‘Alfa Romeo 164 Matteo Messina Denaro ed Eugenio Galea, a bordo di una Mercedes, Aldo Ercolano (e successivamente, al momento della fuga, Vincenzo Salvatore Santapaola) e a bordo di una Fiat uno, Marcello D’Agata”. Il boss di Castelvetrano, quindi, stando a questa ricostruzione, avrebbe partecipato alla fase esecutiva dell’omicidio Scopelliti “al fine di agevolare l’esecuzione e assicurare la buona riuscita del delitto, nonché per garantirsi l’impunità”. Secondo la Dda, infatti, Matteo Messina Denaro “presenziava alle operazioni fornendo supporto operativo” ai killer. Ma non solo: sarebbe stato lui a trasmettere l’ordine di uccidere il sostituto procuratore generale della Cassazione deciso dalla Commissione di Cosa nostra “nel corso di una riunione svoltasi a Trapani nella primavera del 1991”. “Il mandato omicidiario – scrivono i magistrati – proveniva direttamente da Totò Riina”. Quest’ultimo aveva incaricato Messina Denaro che non solo “trasmetteva l’ordine ad Eugenio Galea, esponente di Cosa nostra catanese”, ma “curava i contatti con un informatore locale rimasto ignoto che avvisava il gruppo incaricato dell’omicidio in ordine agli spostamenti del magistrato”. A Messina Denaro, infine, “le informazioni operative relative alle abitudini di vita” di Scopelliti sarebbero arrivate “da Salvo Lima”, ucciso l’anno dopo perché “la DC aveva adottato una politica contraria agli interessi di Cosa Nostra” da cui aveva preso i voti.
LE CARTE DEL PROCESSO ANDREOTTI – Nel fascicolo sull’omicidio Scopelliti sono confluite anche le carte del “processo a carico di Giulio Andreotti celebratosi a Palermo” dove erano stati approfonditi “i tempi di gestione del maxiprocesso in Cassazione”. Riprendendo alle polemiche emerse all’epoca circa la composizione della Suprema Corte che avrebbe dovuto trattare il processo di Riina e dei corleonesi e ricordando che quel maxi “era stato in qualche modo sottratto al collegio presieduto da Corrado Carnevale, il cui atteggiamento processuale avrebbe comunque potuto agevolare o, a seconda dei casi, turbare la ‘serenità’ dei giudicanti, per la Procura di Reggio “vi era una cordata per l’aggiustamento dei processi per mafia composta da Riina-Salvo Lima-Andreotti-Carnevale”. In questo contesto processuale “emerse – si legge nel decreto di perquisizione – anche che Carnevale nelle intercettazioni esprimeva giudizi di forte risentimento verso Falcone e Borsellino, nonché verso Scopelliti dicendo che ‘contava meno di zero’”.
Il riferimento è proprio al magistrato ucciso, che si era proposto “per avere la trattazione del maxiprocesso”. La sua disponibilità, stando alla deposizione dell’ex procuratore generale della Cassazione Vittorio Sgroi, avvenne “ben prima di luglio” tanto è vero che “già tra maggio e giugno Antonino Scopelliti ricevette informalmente e non ufficialmente la delega alla trattazione del maxiprocesso quale pg di udienza”. Questa arrivò quando erano “pervenuti da Palermo gli atti del maxiprocesso nell’ultima decade di luglio”. Solo dopo l’allora avvocato generale presso la Corte di Cassazione Bartolomeo Lombardi, “diede incarico al dottore Scopelliti di occuparsene”. “La notizia della designazione trapelò immediatamente poiché, negli ambienti della Cassazione, non vi era segreto che potesse rimanere tale per più di poche ore”. Ed è per questo che, oggi la Dda di Reggio Calabria sottolinea un passaggio fondamentale: “Il conflitto interno alla Corte era conosciuto in tempo reale da Cosa Nostra. Certamente così come in tempo reale Cosa Nostra era a conoscenza delle vicende inerenti la nomina dei componenti del collegio, del pari se ne inferisce che mediante gli stessi canali informativi era a conoscenza della designazione (informale) del sostituto procuratore generale”.
IL FUCILE DEGLI ANNI ’70. Se nelle pieghe di questo contesto, la Dda di Reggio Calabria intravede il movente dell’omicidio Scopelliti, rivendicato “dalla Falange Armata”, le dichiarazioni del pentito Maurizio Avola servono a puntellare le accuse che potrebbero essere contestate ai singoli indagati. In questa direzione va la decisione del procuratore Lombardo e del pm Parezzan di ricostruire la dinamica dell’agguato riportando, a inizio aprile, sul luogo del delitto la Bmw a bordo del quale il magistrato Scopelliti è stato ucciso con “non meno di due colpi” di fucile calibro 12 a canne mozzate caricato a pallettoni. La Dda non ha dubbi che si tratti del fucile “Zabala Hermanos”, fabbricato in Spagna negli anni ’70 e ritrovato su input del pentito Avola nel 2018 in pessime condizioni e pieno di ruggine. L’omicidio “doveva essere riconoscibile come traccia del coinvolgimento di Nitto Santapaola”. Il “piano” originario, infatti, prevedeva “che l’arma del delitto venisse lasciata all’interno dell’auto dello Scopelliti quale effetto simbolico”. Avola, però, “avrebbe disatteso gli ordini, decidendo di occultare il fucile nel timore che il D’Agata potesse ucciderlo”. Da qui la decisione del collaboratore di giustizia di seppellire il famoso fucile nel terreno del cognato a Belpasso dove poi è stato ritrovato dalla squadra mobile e dalla Dda che hanno eseguito una serie di accertamenti sull’arma. Verifiche anche all’estero da cui è emerso che lo “Zabala Hermanos” avrebbe fatto parte di una partita di 80 fucili, esportati in Belgio nel 1974 all’indirizzo della ditta “G. Fancotte” di Liegi, oggi dismessa. Viste le precarie condizioni del fucile trovato in Sicilia, la Procura è riuscita a recuperare un altro fucile di quel lotto per riscontrare alcune “particolari incisioni in metallo che la caratterizzavano” e di cui fa cenno Avola nelle sue dichiarazioni. Riscontri che dipenderanno da cosa verrà fuori dalle indagini nei prossimi mesi.