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Sfruttate, stuprate e senza documenti: la vita delle lavoratrici domestiche migranti in Arabia Saudita

“La prima cosa che il padrone ha fatto è stata prendermi il passaporto. Quando gliel’ho chiesto indietro, mi ha risposto di non protestare perché mi trovavo in un paese straniero”
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In Arabia Saudita quattro milioni di persone straniere, per lo più donne, lavorano presso abitazioni private: 150.000 di loro provengono dal Kenya.

Un recente rapporto di Amnesty International ha denunciato che proprio le donne originarie del Kenya, assunte come lavoratrici domestiche in Arabia Saudita, subiscono un trattamento tale da poter essere considerato traffico di esseri umani e lavoro forzato, il tutto alimentato dal razzismo, dall’assenza di protezioni legali e dal silenzio del governo del Kenya, che punta sulle loro rimesse.

Il rapporto documenta le vicende di oltre 70 donne kenyane che hanno trascorso periodi di tempo nel regno di Mohamed bin Salman: ingannate sul tipo di lavoro, costrette a faticare oltre 16 ore al giorno, private del giorno di riposo anche per due anni consecutivi e costrette a rimanere nell’abitazione in cui lavoravano, spesso sottoposte a violenza fisica e sessuale e a ogni genere di offesa. Le famiglie presso cui erano “impiegate” confiscavano i loro passaporti e telefoni e a volte trattenevano le loro paghe.

Il salario per pulire, cucinare e badare ai bambini per due terzi della giornata era equivalente a meno di 250 euro al mese, mezzo euro all’ora. Di pagare gli straordinari, ovviamente, non se ne parlava.

Ecco alcune testimonianze (i nomi sono di fantasia):

“Lei [la padrona di casa] non pensava che io potessi sentirmi stanca. Non c’era modo di riposare. Lavoravo per lei tutto il giorno, a volte anche la notte. Mi sentivo una somara, ma poi pensavo che persino i somari trovano un attimo di riposo”. (Rashida)

“Non avevo alcuna libertà, una volta che entri dentro [la loro casa] non ne esci più. Era come stare in una prigione”. (Joy)

“La prima cosa che il padrone ha fatto è stata prendermi il passaporto. Quando gliel’ho chiesto indietro, mi ha risposto che aveva pagato tutto per me e che non osassi protestare perché mi trovavo in un paese straniero”. (Eve)

Molte delle donne incontrate da Amnesty International hanno raccontato che, nonostante il lavoro fosse estenuante, non ricevevano cibo a sufficienza: a volte giusto gli avanzi, altre cibo scaduto, altre ancora proprio niente.

“Il cibo era il problema principale. Sono sopravvissuta grazie ai biscotti. Una volta che avevo cucinato qualcosa per me, il padrone è arrivato e l’ha gettato nella spazzatura”. (Katherina)

Le condizioni di vita all’interno delle abitazioni erano subumane: le lavoratrici domestiche dormivano in minuscoli ripostigli o sul pavimento accanto al letto dei bambini.Immancabili, in questa situazione da braccate in casa, senza documenti e senza possibilità di rivolgersi al sistema giudiziario o di chiedere aiuto all’ambasciata del loro paese, le aggressioni sessuali e i veri e propri stupri. Come nel caso di Judy, che era andata via dal Kenya esattamente per mettersi al riparo dal marito violento.

“Mi stuprava e poi mi minacciava di non dire niente alla moglie. Sono rimasta zitta”.

Il rapporto di Amnesty International elenca una lunga serie di insulti – animale (per lo più scimmia o babbuina), serva, prostituta – e commenti sul colore e sull’odore della pelle.

“A causa della mia carnagione scura, mi chiamavano animale nero. Pure i bambini mi chiamavano scimmia e ridevano”. (Niah)

Negli ultimi anni, nell’ambito del programma “Visione 2030”, le autorità saudite hanno timidamente riformato il sistema del kafala (lo sponsor), che vincola ai loro datori di lavoro 13 milioni di migranti e che è causa diretta di lavoro forzato e di altre violazioni dei diritti umani.

Ma questi modesti passi avanti non hanno riguardato il lavoro domestico. Nella maggior parte dei casi, le persone migranti che lavorano nelle abitazioni dei ricchi sauditi devono ancora chiedere il permesso a questi ultimi per cambiare impiego o lasciare il paese. Nel 2023 è stato emanato un regolamento sul lavoro domestico, che – privo di meccanismi di attuazione, primi tra tutti le ispezioni e i controlli – resta sulla carta.

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