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Trump in Arabia incassa un bottino da capogiro: fiumi di soldi in cambio di protezione e silenzio

Non è la prima volta che gli Stati Uniti stringono un patto di mutua alleanza con i sauditi. Ottant’anni dopo, l’anima dell’accordo non è cambiata
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Il viaggio di Donald Trump, con il suo seguito di oligarchi tecnologici, in Arabia Saudita e nei paesi del Golfo Persico si è concluso con bottini da capogiro: trilioni di dollari di investimenti, contratti per miliardi di dollari nell’aereonautica, nella difesa ed ancora cooperazione a 360 gradi nel settore tecnologico, la lista è lunga e copiosa. Il viaggio è stato anche simbolico, sancisce il coronamento della politica estera trumpiana nel Golfo Persico, politica iniziata 9 anni fa con il suo primo mandato.

Nel 2016 Trump è entrato alla Casa Bianca come imprenditore, e ha governato come tale. L’Arabia Saudita, con le sue enormi risorse finanziarie e il bisogno disperato di protezione strategica, è diventata il suo partner perfetto. Non bisogna dimenticare che la prima visita ufficiale all’estero di Donald Trump non è stata in Europa, né in Asia orientale: è stata a Riyad, dove siglò un contratto di vendita di armi per 110 miliardi di dollari, accompagnato da promesse di investimenti sauditi negli Stati Uniti.

Allora come oggi non si trattava solo di commercio. L’anima della diplomazia trumpiana nei confronti dei sauditi era un nuovo patto: voi comprate la nostra protezione, noi ignoriamo le vostre repressioni. Così, mentre l’Arabia Saudita bombardava lo Yemen, incarcerava dissidenti, giustiziava minorenni e il giornalista Jamal Khashoggi veniva fatto a pezzi, la Casa Bianca restava in silenzio.

Il rapporto Trump-Saudi è la realpolitik portata all’estremo: non più giustificata da necessità strategiche, ma esibita come virtù. L’Arabia Saudita, grazie all’abbraccio trumpiano, è riuscita a riposizionarsi sullo scacchiere internazionale non come monarchia repressiva, ma come partner innovativo, pronto a riformarsi – almeno in facciata. Il piano “Vision 2030” è diventato una vetrina per attrarre capitali occidentali, mentre nel retrobottega continuavano esecuzioni e arresti arbitrari.

Nel frattempo, Jared Kushner — genero e consigliere di Trump — stringeva legami personali e d’affari con i sauditi, ricevendo, dopo l’uscita della famiglia Trump dalla Casa Bianca, due miliardi di dollari in gestione da parte del fondo sovrano saudita. Coincidenze? No. È il capitalismo della politica: si investe nel potere di oggi per garantirsi favori domani ed infatti eccoci alla seconda puntata di questa storia.

Ma non è la prima volta che gli Stati Uniti stringono con l’Arabia Saudita un patto di mutua alleanza di questo tipo. È già successo nel lontano 1945.

Il giorno di San Valentino del 1945, il presidente Franklin D. Roosevelt incontrò in segreto Abd Al-Aziz Ibn Saud, re dell’Arabia Saudita. Il vertice si svolse sull’incrociatore ame¬ricano Quincy, nel Canale di Suez. Roosevelt era di ritorno da Jalta, in Crimea, dove con Winston Churchill e Joseph Stalin aveva tracciato i confini dell’ordine mondiale del dopoguerra. Tuttavia, né Churchill né Stalin erano stati informati di questo incontro. L’amministrazione statunitense li aveva tenuti all’oscuro di proposito, perché Roosevelt aveva intenzione di concludere un accordo segreto con Ibn Saud. La loro era una partnership insolita, volta a garantire agli Stati Uniti un accesso esclusivo ai giacimenti petroliferi sauditi, e che negli anni a venire avrebbe disegnato un’altra, diversa mappa del mondo: la mappa della supremazia economica americana.

Durante tutta la Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti, all’epoca il maggior produttore ed esportatore di petrolio mondiale, avevano rifornito di energia la macchina da guerra degli Alleati. Ma nel 1945 era ormai palese che presto avrebbero perso la propria posizione dominante nel settore energetico, visto l’esaurimento delle loro riserve naturali di petrolio e gas. Roosevelt era molto preoccupato, convinto com’era che chiunque detenesse il controllo dell’approvvigionamento di petrolio avrebbe controllato il mondo. Se gli Stati Uniti volevano continuare a essere la maggior economia del mondo e diventare la più forte superpotenza del dopoguerra, avevano bisogno di facile accesso ad abbondanti fonti di petrolio.

Per l’amministrazione statunitense la partnership tra Washington e l’Arabia Saudita costituiva la strategia più efficace per mantenere una salda presa sulle forniture mondiali di petrolio. Fu in tale contesto che sullo USS Quincy i due leader firmarono uno storico accordo: benché sulla carta non fosse esplicitato, gli Stati Uniti, in cambio dell’accesso alle vaste riserve petrolifere saudite, accettarono di garantire la sicurezza nazionale dell’Arabia Saudita.

Ottant’anni dopo, l’anima dell’accordo non è cambiata, fiumi di soldi, non più di petrolio in cambio della protezione Usa.

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