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Perché, dopo aver visitato sessanta stati, posso affermare che l’Europa è il Paese più bello del mondo

Questi 15 anni di viaggi mi hanno insegnato che, nonostante tutto, qui abbiamo buona qualità della vita, forte stabilità dei costumi, un discreto livello di sicurezza
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Faccio il giornalista di viaggio da 15 anni, ho visitato più di 60 stati in tutti e cinque e continenti e posso affermare con cognizione di causa che l’Europa è il Paese più bello del mondo. L’affermazione va ovviamente contestualizzata, non tanto per giustificare il mio pensiero ma per prevenire le facili obiezioni di molti commentatori che – soprattutto di questi tempi, soprattutto sui social – non perdono occasione di sminuire sotto ogni aspetto il luogo meraviglioso in cui viviamo. Lo ripeto: non esiste un altro paese che offra ai turisti e a suoi cittadini un mix simile di bellezza, stabilità e sicurezza. Ecco invece cosa mi è successo in giro per il mondo in questi ultimi 15 anni.

In Egitto ho dovuto girare scortato a bordo di una camionetta. Ho visitato 25 dei 27 Stati membri dell’Unione: nonostante non esista una difesa comune, non mi sono mai sentito in pericolo.
In Marocco non sono riuscito a visitare liberamente nessun suq: il modo di fare aggressivo e poco empatico di molti uomini arabi è qualcosa che mi metterà sempre in difficoltà.
A Singapore ero consapevole di essere controllato dalle telecamere, qualunque cosa facessi.
Alle Maldive ho visto due colleghe che indossavano un costume a due pezzi essere obbligate a coprirsi con un pareo a causa della vicinanza di uomini musulmani.

All’aeroporto di Tel Aviv, in Israele, ho assistito a questa scena: un controllore che strappa dalle mani di una bambina in lacrime la sua bambola e la decapita per guardarci dentro. L’Europa, ricordiamocelo ogni tanto, è un continente dove gli estremismi sono più contenuti grazie alla stabilità politica e alle istituzioni democratiche.
Ho viaggiato in 18 dei 50 Stati Usa. Amo l’America, amo l’apertura mentale degli americani e la loro capacità comunicativa, ma non vivrei mai tra persone che usano la parola “million” come metro del successo personale.
In Arabia Saudita ho avuto paura di navigare liberamente in Internet. Il paese si sta aprendo progressivamente al turismo internazionale, ma c’è sempre la sensazione che basti fare qualcosa percepito come immorale dai sauditi per finire nei guai.
In Messico ho visto bambini dormire in cartoni ai lati delle strade offrirsi per qualche moneta ai passanti.

In Colombia ho dovuto consolare un amico che, allontanatosi dal gruppo durante una serata in discoteca, è stato sedato e derubato di soldi e passaporto. Lui, al contrario di Alessandro Coatti, è ancora vivo.
In Canada – uno degli Stati più simili all’Europa per stile di vita e stabilità delle istituzioni – ho scrutato negli occhi socchiusi per il freddo degli abitanti del Nunavut, terra vastissima e brulla al cui confronto le nostre zone depresse e isolate sembrano Times Square. In Europa, non dimentichiamocelo, godiamo di una posizione privilegiata: siamo nel centro dell’emisfero boreale. Quelli che noi consideriamo climi estremi in realtà non lo sono.
In Cina ho passeggiato tra gli hutong, le vie strettissime di Pechino su cui affacciano case alveari. Moltissimi cinesi si svegliano, lavorano 14 ore al giorno e tornano a vivere nei loro cubicoli. Diventeranno (lo sono già?) l’economia più potente del mondo. Se il prezzo da pagare è l’alienazione, preferisco essere europeo.

A Saint Vincent e Grenadine, nei Caraibi, ho arrancato ai margini del traffico folle della capitale Kingstown, dove i locali si guadagnano da vivere vendendo avocado a pochi centesimi sotto una cappa di umidità infernale.
Ad Haiti mi sono solo avvicinato: la guerra civile l’ha reso uno dei paesi più pericolosi del mondo.
A Cuba ho visto la povertà reale e la decadenza più estrema. Nessun luogo in Europa, neanche quello più disgraziato, deve affrontare una simile disillusione.

Ora, non voglio di certo dire che in Europa non ci siano problemi. Ne abbiamo eccome. Ma questi 15 anni di viaggi mi hanno insegnato che, nonostante tutto, viviamo in comunità che offrono buona qualità della vita, forte stabilità dei costumi, un discreto livello di sicurezza pubblica. Abbiamo piazze in cui riunirci e parlare. Abbiamo città grandi ma non enormi, che ci permettono di non perderci. Abbiamo istituzioni a volte vetuste e inefficienti, ma non abbiamo né pene di morte né il carcere per gli omosessuali. Il processo di gentrificazione, purtroppo ineludibile ovunque, avviene da noi in modo meno traumatico. Lo sprawl – l’espansione a bassa densità e ad alto consumo di territorio proprie di molte aree urbanizzate contemporanee – non è mai estremo come in altre parti del mondo.

Ecco perché quando su Facebook leggo di post – pubblicati di solito da boomer di destra arrabbiati e polemici, ma non solo – in cui si critica l’Europa per non essere al passo con le politiche aggressive di Usa, Russia e Cina scuoto la testa. Quella europea non è debolezza ma consapevolezza. Siamo il paese culturalmente più evoluto del mondo, più attrattivo a livello turistico, più sicuro. E se siamo stati costretti ad avviare un riarmo imposto dalla situazione internazionale, la colpa non è nostra ma di chi non conosce, o fa finta di non conoscere, il peso della storia.

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