Tutti diversi, eppure tutti uguali. Per questo, a guardarli in serie, immortalati su lastre di pellicola in bianco e nero, si ha l’impressione di smarrirsi. Di perdersi tra gli scatti. Di vagare in un dedalo di monoliti verticali. Sfogliando il Nuovo inventario dei menhir salentini del fotografo Giuseppe Fanizza, pubblicato da ShowDesk/ nel 2025, si viaggia per il Salento, da oriente a occidente, temendo di aver perso le coordinate a ogni pagina. I menhir che un tempo servivano proprio a segnalare confini, ora disorientano chi li osserva. Eppure, invasi dai rovi, nascosti nei chiostri, risemantizzati dalla modernità, resistono conficcati nel terreno. Seguono gli orli dei villaggi e delle campagne, e si rivelano capaci di cambiare il proprio senso senza cambiare mai.
La stratificazione dei sensi e delle interpretazioni si accompagna a un’effettiva accumulazione di utilizzi differenti. Come spiegato dall’architetto Francesco Careri, autore della prefazione del volume, molti menhir svolgevano, sin dall’antichità, più funzioni contemporaneamente, tra il sacro e il profano: erano simboli di fertilità, segnali di confini, indicazioni di fonti d’acqua. Questa complessità si ritrova anche oggi, e le pagine del volume fotografico la mostrano in tutta la sua dissacrante ironia, come nel menhir di Giurdignano, diventato un porta-citofono. “Alla fine che sia utilizzato da un privato per il citofono o dal Comune per abbellire una rotatoria poco cambia. Ciò che colpisce è che in un modo o nell’altro l’uomo continui a dare loro un senso, continui a utilizzarli”, spiega Fanizza.
Il lavoro fotografico è stato sviluppato all’interno del progetto “Itinerari digitali” dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, che ha finanziato la ricerca. L’obiettivo del lavoro era documentare tutti i menhir della regione, per completare le schede del catalogo ufficiale. Un lavoro di archivio, quindi, divenuto poi un lavoro personale e artistico, un oggetto-libro creato anche grazie al contributo del ministero della Cultura – Direzione generale Educazione, ricerca e istituti culturali e realizzato con la cura della casa editrice no profit ShowDesk/ e con il design di Nicola Nunziata. Alle foto si accompagnano le indicazioni geografiche, le coordinate dei menhir individuati e fotografati, e una mappa topografica originale di Juan Lopéz Cano, che colloca nello spazio ogni monolite. Permettendo a chi legge e osserva il volume di rifare il percorso del fotografo Fanizza.
La ricerca dei menhir è una modalità di viaggio. Lo spiega Careri nella prefazione, lo conferma Fanizza ricordando il suo lavoro di catalogazione, condotto in quei territori tra il 2021 e il 2022. I menhir, così, diventano simbolo dell’architettura nomade: le opere megalitiche segnalavano luoghi di sosta, sentieri, punti di passaggio. Allineati o isolati, creavano uno spazio simbolico “dell’andare”. Oggi possono assurgere allo stesso scopo: con la loro statura, si stagliano all’orizzonte e mostrano al viandante lo spazio e il tempo che impiegherà a raggiungerli, permettendogli di comprendere il paesaggio che percorre. Così, con il volume in mano, il viaggiatore può percorrere da est a ovest (proprio come la direzione in cui venivano infissi nel terreno), l’intero Salento, aiutandosi con la mappa e con le indicazioni geografiche presenti in ogni pagina.
Da Uggiano a Campi Salentina, da Minervino a Novoli, questi manufatti raccontano la geografia del territorio salentino, ma anche la sua storia. Nel volume, Filomena Ranaldo, archeologa e direttrice scientifica del Museo della Preistoria di Nardò, ricostruisce l’origine di questi monumenti, rivendicando l’importanza di indagare i significati nuovi e potenziali che essi rivestono nell’attualità. Si tratta di mappare un territorio che racconta una storia umana: “Si tratta, in definitiva, di prefiggersi l’obiettivo di riconoscere nuove geografie di relazioni e di esplorare i paesaggi nel loro divenire”. Proprio come ha fatto Fanizza anche con l’aiuto di Nardò, incontrata durante le ricerche sul territorio.
Una storia che emerge anche dalla nomenclatura dei menhir, che a volte rivela la collocazione del monolite, altre volte invece svela il suo utilizzo originario. Come il menhir Pivataro, a Tutino, rione del comune di Tricase: “Nel dialetto locale – spiega Fanizza ridendo – ‘pivataro’ significa ‘affetto da problemi di meteorismo’. Secondo le storie popolari, legavano al monolite gli animali con problemi di stomaco affinché, girandogli intorno, si sentissero meglio…”. Ancora una volta, il sacro e il profano. L’uso agricolo e la memoria collettiva. La leggenda popolare e l’archeologia. In un’identità territoriale che si costruisce anche attraverso la storia dei menhir. Tutti uguali, eppure tutti diversi.